Westerplatte e Solidarnosc: il ‘900 di Danzica

Mentre il bus che mi porta da Danzica verso la penisola di Wasterplatte costeggia il lungo canale della Vistola, penso a quanto sa essere bizzarra la Storia, che si é divertita a far passare per ben due volte il destino d’Europa per questa città, una piccola città affacciata sul Mar Baltico, così lontana dalle grandi capitali e dai grandi centri del potere economico e politico. La prima volta che ne lessi il nome non ero forse nemmeno al liceo, probabilmente era il manuale di storia della terza media che titolava così il primo capitolo sulla II Guerra Mondiale, con una domanda retorica diventata da allora quasi antonomasica, e incredibilmente tornata d’attualità oggi, un secolo dopo:

“Mourir pour Dantzig?”

Il nuovo assetto dopo Versailles ’19

“Morire per Danzica?” Questo era quello che un giornale francese si domandava nel maggio del 1939. E il perché è presto detto. Dopo la fine della I Guerra Mondiale un macchinoso escamotage diplomatico aveva trasformato Danzica, città prussiana per popolazione, lingua e cultura, in una “città libera” posta sotto l’influenza polacca e la protezione delle Società delle Nazioni. In questo modo i vincitori garantirono alla ricostituita Polonia lo sfruttamento di un grande porto, separando però la Germania dalla Prussia orientale. Nonostante il malcontento degli abitanti di lingua tedesca (il 95% circa della popolazione), la città non attraversò grosse turbolenze durante gli anni ’20. Ma nel decennio successivo, a Danzica come in Germania salì al potere il Partito Nazista, e tutto cambiò.

La propaganda del Partito Nazista a Danzica

Dopo essersi occupato di altre faccende in giro per l’Europa, nella primavera del 1939 Hitler chiese formalmente alla Polonia la restituzione della città di Danzica. Cominciò così un’escalation drammatica, che sul destino di questa città coinvolse progressivamente tutte le cancellerie europee. L’opinione pubblica si divise. Aveva senso trascinare il continente in una nuova grande guerra solo per impedire a Hitler di avere una città che era di fatto già tedesca? Dall’altra parte nessuno poteva ignorare che Danzica veniva dopo l’Austria, dopo la Cecoslovacchia: sarebbe stata davvero l’ultima rivendicazione territoriale nazista?

Oggi sappiamo che Hitler la sua decisione l’aveva presa. I piani erano pronti dall’inverno. La mattina del primo settembre 1939, dalla vecchia nave prussiana SchleswigHolstein, partirono i primi colpi di cannone rivolti verso la penisola di Westerplatte, alle foci della Vistola, dove l’esercito polacco aveva costituito un presidio a difesa di Danzica.

Cominciò così, su questa penisola sabbiosa, la più grande tragedia della storia contemporanea.

La battaglia di Westerplatte

Ancora oggi sono visibili le rovine della caserma, delle fortificazioni e dei bastioni protagonisti della battaglia. I soldati che difesero il forte erano circa duecento, ed avevano l’ordine di impedire lo sbarco tedesco per 72 ore in attesa dei rinforzi, che non arrivarono mai. Nonostante i cannoneggiamenti dal mare e dal cielo, la guarnigione continuò a resistere per otto giorni. Poi, l’8 settembre 1939 finirono le munizioni e il colonnello Dabrowski si arrese. I circa 150 sopravvissuti si avviarono alla prigionia, ma tale era stato il coraggio dimostrato che i tedeschi concessero agli ufficiali l’onore di conservare la sciabola. Fu uno degli ultimi gesti di cavalleria di una guerra che lo sappiamo, avrebbe presto visto le peggiori barbarie.

L’eroismo di quegli uomini oggi è ricordato da un monumento, una gigantesca baionetta stilizzata secondo l’estetica brutalista. Lo innalzarono nel 1966. Solo dopo la fine dello stalinismo infatti permisero il ricordo di quel sacrificio, visto dal regime come simbolo della Polonia “borghese” prebellica. Nel piccolo cimitero dei caduti però, al posto della croce, misero un carro armato sovietico. Così, giusto per chiarire. Quando però Papa Giovanni Paolo II venne a Westerplatte nel 1988 ad incontrare alcuni reduci e la gioventù polacca, trovò di nuovo la croce. E da allora qui è rimasta.

Danzica, una storia più complessa del previsto

Alla fine della guerra Danzica entrò a far parte della Repubblica Popolare di Polonia, e questo si sapeva. Quello che non sapevo, e che ho scoperto qui a Westerplatte, é che nel 1947 ben 150.000 cittadini tedeschi vennero espulsi dalla città e spediti in Germania, mentre 130.000 polacchi vennero fatti arrivare dalle regioni interne della Polonia. Da un censimento del 1950 risulta che 255.000 cittadini di quella che era stata la Città Libera di Danzica, vivevano ormai in Germania. Certo, i tedeschi furono espulsi e non finirono nelle camere a gas, e i Polacchi di oggi possono facilmente attribuire la responsabilità di tutto ai comunisti (polacchi, ma meglio ancora russi). Ma questo resta un clamoroso esempio di sostituzione etnica, non saprei come altro definirlo.

Io ho sempre pensato alla storia di una città come all’insieme delle vicende attraversate dai suoi palazzi, dalle sue piazze, dalle sue chiese…e dai suoi abitanti. La storia di Vicenza è la storia dei vicentini, indipendentemente dalla loro origine o provenienza, tali son diventati per cultura, lingua, usanze. E sono loro ad aver trasformato la città, a volte in meglio a volte in peggio, ina una sorta di simbiosi che continua nel tempo.

A Danzica no. Questa non è la città che aveva fatto parte della potente Lega Anseatica. I palazzi sì, sono gli stessi, ma può bastare? Non credo. C’è una storia di Danzica che si è conclusa con la fine della Seconda Guerra Mondiale, e una storia che è cominciato dopo, altrettanto drammatica. Ed anche questa ha un luogo simbolo che a questo punto devo vedere.

Prima però devo andare a Zaspa.

Street Art in Zaspa

Bella Danzica. Talmente bella che sembra difficile riconoscervi quella Polonia grigia e glaciale che si è sedimentata nel nostro immaginario occidentale durante i lunghi anni del socialismo. Troppo scintillanti i palazzi della Via Reale, per andare dritti a visitare il centro Solidarnosc. Così decido di entrare nel mood visitando il quartiere popolare di Zaspa, dove mi dicono esserci peraltro dei giganteschi murales.

Sceso dal velocissimo treno urbano, percorro il ponte che scavalca la grande arteria stradale diretta verso nord, e mette in collegamento due grandi complessi residenziali quasi gemellari. Da qui la foschia, la pioggia impercettibile, il cielo plumbeo sopra ai casermoni di edilizia popolare mi aiutano a compiere quel salto temporale che andavo cercando. Alti palazzi diversamente orientati circondano spazi verdi punteggiati da qualche albero e movimentati da alcune colline. Trovare i murales non è così difficile. Si vedono da lontano, stesi come sono sulle superfici laterali di ogni caseggiato.

E’ abbastanza curiosa quest’idea che ho già visto sperimentata altrove. L’idea insomma che i graffiti, o murales, o street art che dir si voglia, storicamente sintomo e simbolo di degrado urbano, possano trasformarsi in strumento per rendere meno grigi, meno desolati, i sobborghi delle grandi città. E’ questo in fondo il fil rouge che unisce il Quadraro a Roma, i 99 Dragoni di Oakland, e i graffiti di Borgo Vecchio a Palermo (ricordate?). Il rischio di operazioni simili naturalmente è che la spontaneità, e l’originario spirito dissacrante che anima questo tipo di arte figurativa, vengano persi nel momento in cui essa viene “istituzionalizzata”.

Ecco, qui a Zaspa accade un po’ questo. E’ troppo evidente come i temi siano stati commissionati, se non imposti da qualcuno. Quello che trovo è sostanzialmente la celebrazione delle glorie nazionali e della lotta per la libertà (polacca). Non c’è molta fantasia, insomma: tuttavia alcuni sono ben riusciti e si integrano bene con il contesto. Uno in particolare cattura la mia attenzione. Ritrae un dialogo tra Chopin e George Sand che gli chiede se lo ama, e lui risponde che deve suonare il piano. Certo, Chopin è appunto una delle glorie nazionali, tuttavia il riferimento alla tormentata storia con Sand non era così scontato. Di sicuro l’ha fatto qualcuno che la biografia di Chopin la conosceva bene.

Passeggio un po’ tra i viali, e penso che pochi giorni fa ho attraversato il quartiere Lingotto a Torino ed era molto simile a questo, ma peggio. Almeno qui c’è un po’ di verde. E quindi non so quanto gli operai polacchi fossero più tristi di quelli torinesi. Certo, con questo clima…. comincio a pensare che se l’Europa milioni di anni fa si fosse orientata diversamente, e i “paesi dell’est Europa” fossero stati “i paesi del sud Europa”, con il mare, il sole, le spiagge…forse ci sarebbe ancora il socialismo!

Con questi pensieri dissacranti (per i Polacchi) penso di essermi calato pienamente nel clima che cercavo, e sono quindi pronto per recarmi agli antichi cantieri navali Lenin.

Il Centro Europeo Solidarnosc

La mattina del 14 agosto 1980 i cantieri Lenin di Danzica vennero sconvolti da uno sciopero organizzato per protesta contro il licenziamento di un’operaia, accusata di attività sindacale. Lo sciopero portò all’occupazione di tutto il cantiere, e in pochi giorni la protesta operaia si diffuse in tutto il paese. Le rivendicazioni sindacali divennero presto politiche, e furono sintetizzate in 21 richieste, appese alla Porta n.2 del cantiere. Il regime non poté fare altro che aprire le trattative con il rappresentante degli operai di Danzica, Lech Walesa, ed il 31 agosto 1980 le parti siglarono un accordo che prevedeva la nascita di un sindacato libero, Solidarnosc, ed alcune concessioni sulla democratizzazione della società polacca.

Sembrava l’inizio di una nuova era, e invece nel dicembre 1981 il nuovo governo polacco instaurò la legge marziale in tutto il paese, e fece arrestare i leader sindacali tra cui Walesa. Cominciò così una nuova battaglia per la libertà di cui Danzica fu, ancora una volta, la città simbolo.

Visita al museo

Qui, nei cantieri dove nel 1980 originarono gli scioperi, sorge ora un grande museo e centro studi. Il cancello è stato lasciato volutamente così com’era, e su di esso è stata innalzata l’iconica scritta rossa: Solidarnosc. La visita è durata due ore abbondanti. Credo sia uno dei musei storici più belli che ho visitato. Ha un’impostazione immersiva ed interattiva molto intelligente. La definirei una visione elastica, con la possibilità di volta in volta di conoscere l’essenziale o di approfondire. Penso alle tante mostre in Italia basate ancora su interminabili pannelli esplicativi e stop.

Viene ricostruita dapprima la storia della Polonia socialista, con una particolare attenzione all’evoluzione del regime e del livello di controllo che aveva sulla popolazione. Poi vengono descritte la situazione operaia e la vita nei cantieri. Il tutto portando il visitatore in ambienti riscostruiti con oggetti originali e immagini d’epoca. E’ possibile rivivere il giorno dello sciopero ora per ora su una grande pianta dei cantieri. Infine viene seguita tutta la battaglia che ha portato un sindacato a diventare una vera forza di opposizione politica, attraverso gli anni della legge marziale, fino alla caduta del regime, contestuale ovviamente al crollo sovietico.

Riflessioni sul ‘900 polacco e non solo

Sono molti i particolari che ignoravo, anche se l’essenza è quella che si trova in qualche buon libro o documentario. Durante la visita ho continuato però a ricevere alcuni input che uniti alle “rivelazioni” di Westerplatte mi hanno fatto elaborare alcune considerazioni. E ho deciso di non tenerle per me.

Sulla misteriosa religiosità dei polacchi

La prima cosa che appare evidente è il ruolo che la religiosità del popolo polacco ha avuto nell’animare la lotta al regime socialista. Mi è capitato di conoscere più di una persona proveniente da altri paesi ex socialisti. Sono tutti atei. Non ci avevo mai fatto troppo caso: in fondo era ovvio, c’era il regime. Ma anche in Polonia c’era un regime ateo. Dunque in cosa affonda questo profondo sentimento cattolico? L’avrei capito nei Balcani, dove la lotta secolare contro i turchi avrebbe potuto cementare l’identità nazionale con quella religiosa. Ma qui? Può bastare la salita al soglio di un Papa Polacco? Non saprei, ma mi riservo di capirne di più. Certo è che il desiderio di vivere liberamente la dimensione religiosa è stato un motore potente.

Apparente concessione ai no-mask italiani

Diciamo la verità. Quando i paesi dell’Est hanno adottato con reticenza le misure anti Covid-19 non ci siamo sorpresi troppo. E’ da quando sono entrati(in UE) che vanno un po’ per conto loro… Però un po’ li capisco, ed ecco perché.

Il controllo sociale perpetrato dai regimi polizieschi dell’est non mi era sconosciuto. Ma, e a questo servono i musei, vederlo rappresentato realisticamente con le foto dei prigionieri, le lettere aperte dalla polizia e mai recapitate, i filmati degli interrogatori…fa tutto un altro effetto. E la sensazione è che quello che soffrivano di più fosse proprio la limitazione dei movimenti: il coprifuoco, l’obbligo di giustificare gli spostamenti, i permessi da esibire in ogni occasione, l’onnipresenza della polizia.

Ora, chi aveva vent’anni negli anni della legge marziale, oggi ne ha una sessantina. Non sembra ieri, lo è. E non può essere un caso che proprio i paesi dell’est si siano dimostrati i più recalcitranti nell’adottare misure di controllo sociale, seppur determinate da esigenze di salute pubblica.

Un punto per i no-mask/vax italiani, via. Anzi, no. Mica c’era il socialismo da noi.

Vae victis

Fatti i meritati complimenti a chi ha allestito uno splendido museo, questa è un chiaro esempio di storia scritta dai vincitori. È comprensibile, troppo vicini gli anni del regime per aspettarsi una visione a 360 gradi, o un tentativo di capire chi quel regime l’ha sostenuto. Anche perché molti sono rimasti al loro posto, e fingono di no. Però qualcosa manca.

Sembra che la Polonia di oggi voglia apparire l’erede diretta di quella prebellica. Scaricando di fatto le responsabilità del Repubblica Popolare sulle spalle dei comunisti, come fossero stati un’entità aliena, o meglio ancora dei russi. Va bene, ma cos’era questo regime prebellico? Era un regime autoritario, militarista, di aperte simpatie fascistoidi, e che quando la Germania si mangiò la Cecoslovacchia ne approfittò per prendersene un pezzo. Talmente ossessionato dal comunismo da rendersi conto solo all’ultimo che la minaccia più imminente veniva da Hitler, che era anzi visto come un modello. E in fondo, l’abbiamo visto, Danzica era davvero tedesca, non han mai accettato di discuterne il destino. Ecco, cerchereste invano traccia di questo nei musei e nella pubblicistica polacca di oggi.

La sensazione é che il nuovo potere politico in Polonia stia compiendo una gigantesca riscrittura della propria storia, omettendo le parti più scomode. E’ in parte comprensibile, ma quando un paese lascia pagine irrisolte, non finisce mai bene. E noi che ancora ci dimeniamo imprigionati tra il giorno delle foibe e il 25 aprile, e la giornata della memoria, usati come clave anziché come momenti di ricordo e riflessione, lo sappiamo bene. (dovremmo)

Non ho la pretesa di aver capito un paese in tre giorni, è chiaro. Di certo c’è la voglia di tornare, per capire di più. Perché la storia della Polonia è davvero la storia del ‘900, ed è quindi la nostra storia.