Mozart a Napoli: aneddoti e leggende tra Baia e Pompei

“…Alle 5 di mattina ci recammo in carrozza a Pozzuoli, dove giungemmo prima delle 7 e dove ci imbarcammo per dirigerci verso Baia; qui vedemmo i bagni di Nerone, le grotte sotterranee della Sibilla cumana, il Lago d`averno, il Tempio di Venere, Tempio di Diana, il Sepolchro d`agripina, i campi flegrei ovvero Campi elisi, il Mare Morto, ove era barcaiolo Caronte, la piscina mirabile, e le Cente Camerelle etc., sulla via del ritorno vedemmo molti bagni antichi, templi, camere sotterranee etc., il monte nuovo, il monte gauro, il molo di Pozzoli, il Colißeo, la Solfatara, l`Astroni, la grotta del Cane e il Lago di Agnano etc., ma soprattutto la grotta di Pozzuoli e la tomba di Virgilio. La grotta di Pozzuoli è come la nostra Porta nuova; solo che ci abbiamo messo 8 minuti a percorrerla perché è lunga 344 Canne.”

Leopold Mozart, lettera alla moglie, 16 giugno 1770

Mi fa piacere constatare come Mozart e suo padre nel 1770 sian riusciti a vedere in carrozza in un giorno più posti di quanti sia riuscito a vederne io nel 2022 con i mezzi pubblici. Del resto, se mi trovo in una località fuori Napoli la cui principale attrazione è una città sommersa da visitare con pinne, fucile ed occhiali, in pieno Gennaio…un po’ ci ho messo del mio.

A Baia, aspettando Godot o forse Pulcinella

Tutto è cominciato davanti a un piatto fumante di gnocchi alla sorrentina. Cercavo ispirazione per programmare questa due giorni partenopea rileggendo le lettere che i due noti salisburghesi spedirono a casa durante il loro soggiorno. Oltre al consueto tour di ospitate e accademie nei palazzi dell’aristocrazia, che proverò a ricostruire nei prossimi giorni, si concessero più di un’escursione nei dintorni di Napoli. Niente di più facile allora che andare a visitare quel che visitarono loro. Niente di più facile.

Cosí, eccomi a Baia, il paese che avvolge insieme a Pozzuoli una delle insenature a nord del Golfo di Napoli. Fin dall’antichità era nota per le acque termali e la bellezza del paesaggio. Poi, durante i primi secoli dopo Cristo, progressivi fenomeni di bradisismo l’hanno portata ad inabissarsi lentamente ma inesorabilmente. Per questo oggi è famosa soprattutto per il parco archeologico sommerso che si può visitare con escursioni guidate di immersione o snorkeling. Non a Gennaio, ovviamente. Tuttavia Baia è anche punto di scambio per raggiungere Cuma, e da lì l’antro della Sibilla e il lago Averno, e tutti questi luoghi che mi evocano vaghi ricordi di spensierata gioventù liceale.

Ecco perché mi ritrovo adesso abbandonato allo sconforto su un cumulo di pietre ai margini di una rotonda, dove un fantomatico bus avrebbe dovuto raccogliermi tanto tempo fa.

Il Castello Aragonese di Baia

Sono molto amareggiato, sicuramente la Sibilla avrebbe saputo dare risposte interessanti ai miei quesiti, ma concludo che non posso certo passare il pomeriggio ad aspettare uno tra Godot e Pulcinella. Decido allora di gironzolare per Baia e tanto per cominciare mi incammino verso il punto più alto, dove vedo ergersi un castello.

Il castello di Baia ha ricoperto importanti funzioni di difesa sin dai tempi delle campagne d’Italia dei re francesi. E’ passato poi sotto i Borboni, la Repubblica partenopea, ed infine la Repubblica italiana, ed è allora che non si è capito più che farne. Nel dopoguerra è rimbalzato tra diversi enti fino a diventare solo pochi anni fa la sede del Museo Archeologico dei Campi Flegrei. Sfortunatamente, nonostante lo scatto finale, non raggiungo l’ingresso prima delle 16.00 spaccate, e il museo nella persona di una zelante signora mi chiude i battenti in faccia.

Riesco però a intrufolarmi quanto basta per esplorare il giardino e gettare lo sguardo verso l’orizzonte. Il mare è azzurro e il cielo limpido, il sole invernale è quasi tiepido e in lontananza si scorgono il Vesuvio a sud e Procida, o forse Ischia, a ovest. Mi riprometto di tornare per visitare questa famosa città sommersa e mi incammino verso il lago che separa l’altro versante del promontorio dal mare.

Sulle sponde del lago di Fusaro

Gli antichi identificavano questo specchio d’acqua con la palus Acherusia, dove “Caron dimonio con gli occhi di bragia” caricava le anime dei dannati. Probabilmente in quei tempi l’ambiente selvaggio e i fumi sulfurei dovevano conferire al lago un aspetto spettrale che scatenava le fantasie più tetre. Nel ‘700 però tutta la zona divenne riserva reale, e il re Ferdinando pensò di far costruire al suo archistar Vanvitelli un casino di caccia proprio sulle rive del lago. Il piccolo edificio, collegato alla riva da un ponticello, riesce nel miracolo di nascondere una struttura complessa dietro un’apparenza estremamente semplice, dalla simmetria quasi più rinascimentale che neoclassica. Ma è l’armonia con cui la palazzina si incastra nella scenario del lago ad essere stupefacente. E’ così perfetto questo connubio tra architettura dell’uomo e natura che immaginarsi il lago senza casetta è adesso quasi impossibile, ma anche la casetta senza il lago non avrebbe senso, e forse sarebbe piaciuta anche a Caronte.

E poi devo ammettere che tutti i ritardi, tutte le imprecazioni della giornata hanno acquisito almeno un senso: farmi arrivare qui trafelato all’ora del tramonto. All’ora in cui la luce più tenue permette di osservare gli inganni che essa stessa crea, e che nasconde invece nelle ore del giorno più abbaglianti.

La Casa Vanvitelliana tra il lago e il cielo

All’orizzonte dove un sottile istmo separa il lago dal mare, la collina sembra inabissarsi e fondersi con il suo stesso riflesso, mentre sull’acqua il piccolo casino si sdoppia sviluppando un’ulteriore simmetria architettonica. Quella che nasce è un’immagine di sogno, perché incamminarsi ora su quel ponticello che collega la riva alla casa, mi appare come un piccolo viaggio nel cielo…solo che trovo una catena, e quindi torno indietro.

Su questa casetta circolano alcune leggende, legate prevalentemente alle persone illustri che vi avrebbero dimorato. Prima tra tutte, ovviamente, il nostro Amedeo. La cosa però è impossibile, perché venne costruita quindici anni dopo la sua visita. Sappiamo però che i Mozart passeggiarono su queste rive e furono colpiti dalla pace del luogo.

In compenso ci dimorò Rossini, poi uno Zar e mi pare anche un Presidente della Repubblica. Un’altra leggenda, che però io ho creduto subito vera, è che fosse la casa della fata dai Capelli Turchini nell’indimenticabile Pinocchio di Comencini. Non è così, anche se la somiglianza c’è. Ci hanno girato invece alcune scene di un thriller/horror di Lucio Fulci e in fondo non c’è molto da stupirsi.

Me ne sto una buona mezz’ora seduto a cavalcioni del muro di cinta a guardare il cielo accendersi e spegnersi nel crepuscolo, ma alla fine arriva il tempo di tornare a Napoli. Devo mangiare una pizza, salire sul Belvedere, taggare gli amici napoletani al nord, e soprattutto programmare la prossima visita a Pompei.

Manovre salvavita sulla strada di Pompei

Tanto è sembrato difficile muoversi dal centro di Napoli verso nord, tanto è stato semplice raggiungere Pompei. La Circumvesuviana è solo una delle possibili opzioni, ma è parsa subito la più rapida ed efficace.

In realtà ci sarebbe stato quel momento in cui una signora è stramazzata al suolo all’improvviso, il treno si è fermato e l’unica persona in tutto il vagone in grado di effettuare le manovre di Basic Life Support era una…. e indovinate chi era?

Esatto. E io avevo anche guardato per un po’ il capannello di gente che si assiepava, sperando che come nei film emergesse una sagoma sgomitando al suono della mitica frase: “Fate largo! Sono un dottore!”. Ma il muro di pendolari è rimasto impassibile come il muro dei soldati Franchi a Poitiers e quindi niente, è toccato a me.

Comunque, caricata poi la signora su un ambulanza a braccia(e questo fu il vero atto d’eroismo), il treno è ripartito e sono giunto abbastanza in orario a destinazione. Raggiungo subito il Foro, con la splendida e terribile vista del Vesuvio sullo sfondo. Da qui si aprono le grandi e piccole vie che delimitano i quartieri di quella che appare davvero una città!

Trovo facilmente il Teatro Grande che lentamente si sta popolando di visitatori. Mi siedo al sole su uno degli anelli più alti e comincio a leggere la lettera di Plinio il Giovane a Tacito.

Fortes fortuna iuvat – fine eroica di Plinio il Vecchio

Questa celebre lettera descrive l’eruzione del Vesuvio e la morte di Plinio il Vecchio, lo zio dell’autore, che fu magistrato e militare romano, e autore di un monumentale trattato di scienze naturali. Quell’autunno del 79 d.C. si trovava di stanza a Miseno come comandante della flotta. Quando nel cielo esplosero i fumi dell’eruzione, decise di soccorrere alcuni amici che cercavano aiuto sulla spiaggia di Stabia. Condusse in quella direzione le navi, al motto di fortes fortuna iuvat, celebre frase che purtroppo non sempre si avvera. Una volta approdato a Stabia infatti il mare agitato impedì alla flotta di ripartire, e nulla poterono più fare per sfuggire al manto di cenere, gas e polvere infuocata che avvolse in poche ore anche quella città.

La lettera del nipote pone comprensibilmente l’accento sull’aspetto eroico della vicenda, ma non manca di suggerire la grande curiosità dello zio, che morì anche per l’irresistibile voglia di osservare da vicino un fenomeno grandioso. Studiare, conoscere, fino agli estremi rischi, come un incrocio tra Ulisse e San Tommaso: Calvino definì i Plinio il Vecchio come il “protomartire del sapere scientifico”. Un’interpretazione forse forzata, ma a noi piace.

Ora quest’immagine di me che seduto sugli antichi sedili di pietra leggo la più celebre fonte sulla fine di Pompei il giorno in cui arrivo a Pompei, potrebbe apparire leggermente affettata. Ma voi non dovete pensare a un Goethe che legge Dante una volta giunto a Firenze. Dovete pensare più a un giovane lonnieplanet che accartocciato su sé stesso legge i capitoli di chimica che non ha studiato il giorno prima, mentre il Circolare 12/14 lo porta a scuola a fare il compito di chimica. Sono sicuro che ora sembra tutto più credibile.

Il tempio di Iside e il Flauto Magico di Mozart

Conclusa la lettura comincio ad esplorare il quartiere dei teatri. Nel 1764 fu tra le prima zone ad essere portate alla luce, e quindi ai tempi di Mozart era già molto simile ad oggi. Attorno al teatro maggiore e al piccolo odeon sono visibili i resti di numerosi templi. Tra i meglio conservati, con il colonnato e la scalinata, mi appare davanti il tempio di Iside: una presenza singolare, data l’origine orientale della divinità.

Secondo una tradizione, alimentata da fonti anche autorevoli, Mozart si ispirò proprio al ricordo di questo tempietto quando compose il Flauto Magico, la cui trama è ambientata come noto nell’Antico Egitto. Non vorrei fare proprio io lo spezzabolgia del mio stesso viaggio, ma penso che il simbolismo del Flauto Magico sia piú legato ai rituali e all’immaginario della Massoneria, cui Mozart e il suo librettista erano iscritti. Ma di sicuro lo vide, forse ancor più bello di come lo vediamo noi oggi, perché all’epoca affreschi e mosaici non erano ancora stati asportarti ( oggi si trovano nel Museo archeologico a Napoli). E allora perché non pensare che quando compose la marcia con cui Sarastro invita Tamino ad entrare nel tempio di Iside e Osiride…non sia tornato anche lui qui con la mente?

Trionfo e mistero del colore a Pompei

Abbandonato il quartiere dei teatri comincio a zigzagare tra le vie e le case, sfidando la fantasia ad immaginare il completarsi di un arco, o di un porticato, là dove nella realtà la pietra lascia il posto al vuoto, o meglio al cielo.

Le ville hanno nomi evocativi legati solitamente ad un ritrovamento particolare. Ecco che dove fu rinvenuta la statua di un fauno abbiamo la Villa del Fauno, là dove la lava ha conservato un affresco col mito di Leda, la Villa di Leda e così via. Proprio gli affreschi, che unitamente ai mosaici dovevano determinare una vera onnipresenza del colore, sono la scoperta piú bella. Aggirandosi tra gli antichi porticati, camminando tra i chiostri e i patii, si intuisce come non ci fosse un centimetro di superficie che non fosse colorato. Il giallo, l’azzurro, e ovviamente il celebre rosso pompeiano avvolgevano gli abitanti di queste case ad ogni passo. La mia visita diventa allora una caccia, tesa a scovare ogni frammento di colore conservato dalla cenere, testimonianza di un gusto raffinato e vivace.

L’affresco più noto è quello della Villa dei Misteri, che si raggiunge con una bella passeggiata verso la campagna. Qui nella stanza da pranzo, una straordinaria sequenza di figure circondava i convitati. Probabilmente era rappresentato un rito dionisiaco, ma gli storici non sono ancora giunti ad un’interpretazione univoca. Quello che a me colpisce è appunto l’intensità del colore, questo rosso così denso e corposo. Come riuscivano a crearlo? Semplice, non é opera loro. Secondo una ricerca del CNR infatti gran parte delle pareti che oggi appaiono rosse erano in origine color ocra. Avrebbero mutato aspetto proprio durante l’eruzione, per effetto dei gas roventi che trasformarono con il calore la tinta originale. Incredibile.

Il bordello e l’anfiteatro

Ok, bugia clamorosa. I più celebri affreschi di Pompei sono ovviamente quelli del lupanare. Ci sono stato, ma non mi hanno colpito particolarmente. Mi son sembrati molto più grossolani rispetto agli altri, anche se non credo i frequentatori se ne dolessero particolarmente.

Alla fine le peregrinazioni mi portano al grande anfiteatro che risulta essere addirittura il più antico al mondo. Vengo più impressionato dall’imponente palestra antistante, presumo ad uso dei gladiatori. Dovrei cominciare a fantasticare sulle note de Il Gladiatore come ad Arles, ma penso di aver chiesto troppo per oggi anche alla mia fantasia. E soprattutto alle gambe.

Prendo così la via del ritorno, anche perché dovrò fermarmi a metà percorso. A Torre del Greco c’è un chilometro di strada verso Napoli che ha un’altra storia da raccontare.